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venerdì 29 ottobre 2010

IL GRANDE SUCCESSO DEL SIGNORE DEGLI ANELLI E IL SUO SIGNIFICATO.


Il segreto de Il Signore degli Anelli


Un "caso" letterario

Il Signore degli Anelli è un piccolo caso letterario.
Dal 1955 ad oggi ha venduto più di 100 milioni di copie ed è stato tradotto in 30 lingue diverse.
In Italia, tra il 1970 e il 1999, Rusconi ha pubblicato quarantaquattro ristampe dell’opera; Bompiani negli ultimi tre anni ha venduto 600 mila copie del libro.
Davvero niente male se si considera che si tratta di un libro di oltre 1200 pagine (escluse le appendici), pubblicato da una casa editrice “di nicchia”, tradotto da una ragazzina (Vittoria Alliata di Villafranca aveva allora 15 anni), che ha goduto di pochissime recensioni e praticamente ignorato dagli intellettuali.
Senza contare che si tratta di un romanzo che parla di orchi, elfi, draghi e altre cose del genere e che l’intelligentsja italiana, ossessionata dal “realismo” e dal “neo-realismo”, poteva digerire solamente in uno studio sull’antropologia culturale e sulla sub-cultura delle “masse popolari” italiane.
Come è possibile, quindi, che un libro simile abbia avuto questo straordinario successo – in Italia e nel mondo -? E perché è un libro così importante? Perché vale la pena di perderci una serata?
Questa sera cercheremo di rispondere a queste domande.

“In principio era il verbo” (1)

Come è nato Il Signore degli Anelli? John Ronald Reuel Tolkien era un filologo, insegnava lingua e letteratura inglese a Oxford; fin da bambino aveva subito il fascino delle parole e delle lingue (soprattutto scandinave). Aveva addirittura inventato alcuni linguaggi, via via sempre più sofisticati; quello che più lo soddisfaceva era una lingua derivata dal finnico (che poi sarebbe diventata il Quenia o Alto elfico) (2).
Essendo un filologo sapeva benissimo che una lingua non è una cosa asettica, a sé stante, bensì qualcosa che ha una storia, che nasce e cresce in un ambiente, un contesto, che porta in sé le infinite storie di chi la parla. Decise quindi di inventare un popolo e una terra per la sua “bislacca lingua fatata”.
Ma il professor Tolkien aveva anche un altro grande desiderio: creare una mitologia per la sua patria, l’Inghilterra, che avesse la forza, la maestosità e la poesia dei miti nordici.
Da queste due grandi passioni nacque The Book of the Lost Tales, quello che noi conosciamo con il titolo di Il Silmarillion, che Tolkien cominciò a scrivere durante la Prima Guerra Mondiale.
Il Silmarillion è la cosmogonia dell’universo creato da Tolkien. Vi si narra del Creatore (Ilùvatar) che crea il mondo cantando una straordinaria melodia insieme agli Ainur, i suoi angeli chiamati a collaborare con lui. Ilùvatar creò poi le principali razze viventi: gli Elfi, gli Uomini, i nani… Ma il più possente e il più bello tra gli Ainur, Melkor, invidioso del potere creatore di Dio, decise di ribellarsi e di dedicarsi alla dissoluzione e alla corruzione del creato. Melkor fu quindi confinato sulla terra seguito da alcuni Maiar, spiriti minori (tra questi Sauron, Ungoliant – la “mamma” di Shelob -, il Balrog); con essi produrrà le terribili razze degli orchi, dei lupi mannari, dei troll e dei draghi. La prima era si concluse con la vittoria da parte degli Elfi e degli Uomini sulla malvagità di Melkor.
Gli Uomini che si opposero a Melkor ottennero di potersi stabilire sull’isola di Numenor, tra Valinor, dove risiedevano i Valar (gli Ainur che avevano il compito di presiedere l’ordinamento della terra), e la Terra di Mezzo.
Ma i numenoreani, istigati da Sauron decisero però di muovere guerra ai Valar: i Valar reagirono facendo scomparire Numenor tra i flutti. Gli Uomini rimasti fedeli ai valar tornarono sulla Terra di Mezzo. Così si concluse la seconda era.
La terza era riguarda la creazione degli anelli e le vicende narrate ne Lo Hobbit e ne Il Signore degli Anelli.

“In un buco della terra viveva un hobbit”

Tolkien aveva però anche un’altra grande passione: scriveva favole per i suoi bambini (John, Michael, Christopher e Priscilla). Lo Hobbit è una di queste (3).
Tolkien racconta che Lo Hobbit nacque mentre correggeva i compiti dei suoi allievi. Uno di loro lasciò una pagina in bianco ed egli ci scarabocchiò sopra queste parole: “In un buco della terra viveva uno Hobbit”. Molti si sono interrogati e hanno interrogato Tolkien circa l’origine della parola “Hobbit”, ma questa domanda resta tutt’ora senza risposta (4). Una ex studentessa di Tolkien, che lavorava per la casa editrice Allen & Unwin, propose questo libro per la pubblicazione. L’editore lo fece leggere al figlio Rayner, di dieci anni, che scrisse una recensione di poche righe che terminava con queste parole: “Questo libro, aiutato da mappe, non ha bisogno di alcuna illustrazione, è bello e va bene per tutti i bambini tra i cinque e i nove anni” (5). Il libro fu pubblicato (1937) ed ebbe un ottimo successo, tanto che l’editore chiese a Tolkien di scrivere un nuovo libro che parlasse di hobbit.
Tolkien cominciò così un nuovo libro che aveva come protagonisti degli hobbit; solamente decise di ambientarlo nella Terra di Mezzo durante la Terza Era. Questo libro avrebbe quindi narrato un’altra delle Lost Tales che componevano Il Silmarillion (6).
Tolkien impiegò 12 anni (dal 1938 al 1949) per scrivere Il Signore degli Anelli (questo fu il titolo del libro). Il libro fu diviso in tre volumi, dei quali i primi due uscirono nel 1954 (il terzo nel 1955). Nel 1956 si ebbe la prima traduzione, in olandese; nel 1965 uscì la prima edizione (non autorizzata) statunitense del romanzo. Era cominciata la leggenda.

I temi de Il Signore degli Anelli

La trama de Il Signore degli Anelli è decisamente nota, anche grazie al successo dei film di Jackson; non è necessario ricordarla.
Per rispondere alla domanda “Perché Il Signore degli Anelli è un libro così importante?” vale la pena di soffermarci sui temi principali del romanzo.

Innanzitutto si può osservare che Il Signore degli Anelli è il racconto di un viaggio; un viaggio che i personaggi compiranno non solo sulle strade della Terra di mezzo, ma anche in loro stessi. Tutti i personaggi cambiano, ma cambiano – sembra un controsenso – restando se stessi… Approfondiremo più avanti questo tema.
Sappiamo che il tema del viaggio era particolarmente importante per la cultura medievale, della quale Tolkien era innamorato: l’uomo era l’homo viator, il viaggiatore, e la sua vita un viaggio. Nei miti che Tolkien aveva studiato, inoltre, era presente il tema della “cerca”, della quest: l’eroe doveva affrontare un lungo viaggio, durante il quale avrebbe incontrato numerosi pericoli, per conquistare un oggetto in grado di assicurare la felicità. Il Signore degli Anelli è invece una “cerca” al contrario: l’eroe deve affrontare un lungo viaggio colmo di pericoli per distruggere l’oggetto, non per conquistarlo.
Dunque Il Signore degli Anelli è la storia di un sacrificio.
Non solo: tutti i personaggi positivi de Il Signore degli Anelli compiono il loro personale sacrificio.
Il più evidente è quello di Gandalf: capo della Compagnia dell’Anello, anziché mettersi al riparo dal Balrog incontrato al ponte di Khazad-dûm insieme al Portatore dell’Anello, decide di affrontare in prima persona il combattimento per permettere agli altri di mettersi al riparo (7). E muore.
Aragorn è disposto a proteggere Frodo a costo della vita (8); Boromir cade difendendo gli Hobbit (9); Arwen rinuncia all’immortalità per amore di Aragorn (10).
Frodo è pronto a sacrificarsi salendo al Monte Fato pur di salvare la Contea (11); e così gli altri Hobbit.
Infine Galadriel, che compie la sua rinuncia con una frase estremamente significativa, come vedremo:
“«Ho superato la prova», disse. «Perderò i miei poteri, e me ne andrò all’Ovest, e rimarrò Galadriel». (12)”

Ma il sacrificio, ne Il Signore degli Anelli, non ha niente a vedere con il masochismo, nessuno tra i personaggi è contento di sacrificarsi e il sacrificio non è fine a sé stesso. Il sacrificio è una rinuncia volontaria necessaria per portare a termine il proprio compito; la rinuncia è fatta in vista di un bene più grande donato agli altri, un estremo gesto d’amore. Sembra paradossale, eppure la piena realizzazione del proprio compito richiede una rinuncia a sé stessi. A questo punto tuttavia, incredibilmente, scatta un contro-paradosso: quando i personaggi rinunciano a tutto, persino a loro stessi, ecco che in quel momento diventano più pienamente sé stessi (13). Gandalf, dopo la morte, torna – è più corretto dire che è “rimandato” – non più grigio, ma bianco, e il bianco indica il massimo della potenza e della sapienza per gli Istari; Aragorn, disposto al sacrificio, diventa il re.
Pare, insomma, che il vero viaggio, la vera battaglia, consista nell’autorealizzazione, nell’essere pienamente ciò che si è, nello svolgere fino in fondo il proprio compito (14). Questo compito richiede, per la propria realizzazione, un sacrificio; ma la ricompensa è grandissima.

A questo punto ci si può interrogare sul significato dell’Anello.
Galadriel rinuncia all’anello ed elenca le conseguenze della sua rinuncia: perderà i suoi poteri, perché la distruzione dell’unico Anello comporterà la perdita del potere di tutti gli altri soggetti al suo dominio; se ne andrà all’Ovest – e in seguito vedremo cosa significa -; e infine resterà Galadriel, cioè sé stessa.
Che significato ha quest’ultima frase?
Abbiamo detto che ogni personaggio ha una natura e il suo compito è principalmente quello di diventare pienamente sé stesso, dando modo alla propria natura di realizzarsi completamente.
Galadriel sembra sottintendere che l’Anello le darebbe forza e potenza, ma non sarebbe più Galadriel. E’ come se il potere dell’anello comportasse una perdita della propria natura, della propria anima. La forza e la potenza non sarebbero frutto di un esercizio ascetico, della piena realizzazione di sé stessi, dell’adempimento del proprio dovere, ma di un pervertimento di tutte queste cose. Si tratta di un imbroglio, come ben sanno i Nazgûl: non sono loro ad avere il potere, ma il potere a possedere loro; essi sono “sbiaditi”, non sono più ciò che erano, sono schiavi. E’ una scorciatoia che porta lontano dalla propria mèta; una droga che da illusione di potere mentre può dare solo schiavitù; un doping che permette alla sostanza, non all’atleta, di raggiungere il risultato (15).

Un altro tema, in apparenza quello più ovvio del libro è quello dello scontro tra il bene e il male. Questo tema è appunto apparentemente ovvio: lo scontro tra il bene e il male al quale assistiamo leggendo Il Signore degli Anelli appartiene ad un genere al quale non siamo forse più abituati. Il bene è bene e il male è male, è non c’è tra loro possibilità di confronto o di dialogo (16). Tolkien, in altre parole, rifiuta in toto la dialettica hegeliana – tanto diffusa nel nostro modo di pensare – secondo la quale la tesi e l’antitesi sono entrambe necessarie e dalle quali si svilupperebbe la sintesi, più elevata e migliore delle prime due. Per Tolkien – lo vedremo meglio – esiste il bene. Ciò che si oppone al bene è il male - che è quindi assenza di bene – con il quale non si può scendere a compromessi, ma soltanto lottare.
Se questo vale per il bene e per il male, il romanzo non descrive una lotta manichea tra esseri completamente e definitivamente buoni e esseri completamente e definitivamente cattivi. Nell’universo di Tolkien nessuno è creato cattivo: tutti sono creati buoni. Sembra strano che Il Signore degli Anelli sia popolato da creatura malvagie e che nessuna di loro sia stata creata così, eppure, facendo riferimento a Il Silmarillion, Ilùvatar ha creato il mondo nell’armonia. Passando in rassegna i personaggi cattivi de Il Signore degli Anelli scopriamo che è proprio così.
Gollum, prima di essere corrotto dal potere dell’anello, era lo hobbit Smeagol; gli orchi non sono che elfi “rovinati e depravati” (17); Saruman era uno degli Istari (18) - anzi, il più potente ed importante degli Istari -, cinque Maiar che avevano il compito di opporsi a Sauron; Ungoliant e il Balrog sono due Maiar (19), come lo stesso Sauron (20); persino Morgoth, il personaggio più cattivo, era uno degli Ainur, anzi: era quello al quale “erano state concesse le massime doti di potenza e di conoscenza” (21)!

In che modo si diventa “cattivi”? In due modi: o scegliendo il male (come Sauron, Il Balrog e Shelob) oppure cercando un compromesso con il male (come Saruman o Boromir).
E’ evidente, quindi, come la lotta tra il bene e il male si svolga soprattutto nell’animo dei protagonisti: Frodo, Galadriel, Gandalf, Aragorn, Boromir... tutti loro devono combattere, prima ancora che contro Sauron, contro sè stessi, contro il proprio orgoglio.
Una volta che si è abbandonata la strada del bene si è veramente “cattivi”, ossia prigionieri: i Nazgul sono, ad esempio, i “servi” dell’Anello. Solo chi sceglie il bene rimane libero; chi sceglie il male diventa schiavo del male (22). I personaggi positivi del romanzo sono tutti sempre liberi; ad esempio, nessuno obbliga Frodo a portare l’Anello, e tutti i membri della Compagnia dell’Anello sono liberi di “tardare, o tornare indietro, o deviare per altri sentieri, a seconda del caso” perché “nessuno giuramento e nessun vincolo vi costringe a fare un passo in più di quanto non vogliate” (23).
Vale anche il contrario? Ossia: chi è cattivo può ridiventare buono? Può essere, ma è più difficile. Boromir, ad esempio, riconosce la sua colpa, la espia con la sua morte e riceve il perdono da Aragorn. Frodo, ad esempio, spera ardentemente che Gollum non sia completamente perduto perché sente che l’anello lo sta logorando; infatti Gollum ha la possibilità, per un istante, di tornare ad essere un nient’altro che un vecchio e stanco Hobbit, ma proprio in quel momento una reazione irata di Sam gli toglie ogni possibilità di redenzione (24).

Tuttavia nemmeno lo scontro tra il bene e il male sembra essere il tema principale del romanzo, qualcosa ancora sfugge. Molti commentatori hanno cercato di scovare la chiave di lettura dell’opera; c’è stato persino che ha fornito interpretazioni politiche e persino chi ha ipotizzato che fosse una allegoria del potere dato dalla bomba atomica. Così ha risposto Tolkien in una lettera ad una lettrice:

“Naturalmente la mia storia non è un’allegoria del potere atomico, ma del Potere (esercitato attraverso il dominio)” (25).

Dunque il problema è risolto: il nocciolo della storia è il potere.
Eppure sembra strano: per tutto il romanzo Aragorn combatte (anche contro le proprie paure) proprio per arrivare al potere, per diventare re! Questo è il suo compito, e questo è ciò che Aragorn otterrà alla fine del romanzo; e Aragorn è decisamente un personaggio positivo. Qualcosa, è evidente, non torna.
Proseguendo nella lettera, infatti, Tolkien approfondisce il suo pensiero:

“Penso che nemmeno il potere, o il dominio, sia il vero nocciolo della mia storia. Fornisce il pretesto per una guerra, ed è qualcosa di sufficientemente scuro e minaccioso da sembrare, all’epoca, di somma importanza, ma è per lo più una cornice che permette ai personaggi di mostrarsi per quello che sono. Il tema centrale per me riguarda qualcosa di molto più eterno e difficile: morte e immortalità: il mistero dell’amore per il mondo in una razza destinata a lasciarlo e apparentemente a perderlo; l’angoscia nei cuori di una razza destinata a non lasciarlo, finchè il suo intero ciclo nato dal male non sia completo.” (26)

Morte e immortalità? Cosa intende Tolkien per “morte e immortalità”? E qual è la razza destinata a lasciare il mondo ed, apparentemente, a perderlo?
Il tema della morte traspare in effetti per tutta l’opera: l’Anello sembra dare una vita lunghissima; in realtà dà una morte lunghissima. Inoltre le varie razze della Terra di Mezzo non hanno la stessa aspettativa di vita. Gli Elfi sono immortali; la vita dei nani può superare i duecentocinquant’anni (27); i numenoreani, la stirpe di Aragorn, avevano una vita “tre volte più lunga di quella degli Uomini della Terra di Mezzo” (28); anche gli Hobbit avevano una vita più lunga degli Uomini (29). Pare quindi che non gli Hobbit, bensì gli uomini siano la stirpe più debole; non solo per la vita breve anche perchè essi subiscono il fascino e il potere dell’Anello più di ogni altra razza, e più di ogni altra razza sono soggetti a fallimenti, tradimenti, sconfitte (30). Eppure ad essi sarà riservato un ruolo particolare.
Gli Elfi, dunque, sono immortali. Essi sono i “priminati”, i primi creati da Ilùvatar sulla Terra di Mezzo (31). Eppure non sono le creature più felici: essi sono straziati dalla malinconia e dalla nostalgia. Malinconia perché essi, in quanto immortali, assistono al lento ma inesorabile declino delle cose del mondo; nostalgia per l’Ovest, ossia per la scomparsa Numenor, per Valinor, la terra abitata dai Valar. Gli Elfi hanno assaporato la dolcezza del vivere in armonia con le creature celesti e non hanno pace sulla Terra di Mezzo, sapendo quale destino di gioia li attende (32).
Tuttavia essi non possono lasciare liberamente la Terra di Mezzo ed andare verso l’Ovest: devono opporsi con il loro potere e la loro forza a Sauron, al male. Solo quando l’Anello sarà distrutto ed essi avranno perso i loro poteri, solo allora essi avranno concluso il loro compito e potranno, come preannuncia Galadriel, andarsene all’Ovest (33).
Ma quel momento sarà il momento del ritorno del Re! Aragorn avrà portato a termine il suo cammino e sarà pronto per prendere il suo posto: sarà Re sulla terra di mezzo; a lui e alla sua stirpe, gli Uomini, sarà lasciato il compito di combattere contro il male. Sconfitto Sauron, infatti, il male non sparirà dalla terra, ma si presenterà in altre forme:

“Altri mali potranno sopraggiungere, perché Sauron stesso non è che un servo o un emissario. Ma non tocca a noi dominare tutte le maree del mondo; il nostro compito è di fare il possibile per la salvezza degli anni nei quali viviamo, sradicando il male dai campi che conosciamo, al fine di lasciare a coloro che verranno dopo terra sana e pulita da coltivare. Ma il tempo che avranno non dipende da noi” (34).

Ne Il Signore degli Anelli, tuttavia, c’è spazio anche per la Provvidenza (35).
Frodo, giunto al momento decisivo della vicenda, è sull’abisso del Monte Fato: finalmente può compiere il gesto per il quale ha lottato e sofferto, gettare l’Anello nel fuoco dal quale era stato tratto. E non lo fa.
Frodo fallisce.
Improvvisamente, in quel momento, si ricorda di quanto debole sia l’eroe del romanzo; dopo più di mille pagine, dopo difficoltà e pericoli, nel momento decisivo, egli si rivela in tutta la sua debolezza. Non è il nemico a sconfiggere Frodo, ma la propria debolezza.
Eppure la missione riesce; come aveva predetto Gandalf (36), riesce grazie a Gollum, che strappa l’Anello a Frodo ma precipita con esso nella voragine. La pietà e la misericordia (di Bilbo prima, di Frodo poi) hanno fatto sì che il piano stabilito dalla provvidenza potesse avere corso. Ma perché Frodo arrivasse al Monte Fato era necessario che Aragorn e Gandalf decidono di servire da esca a Sauron. Aragorn e Gandalf non sapevano dove fosse Frodo, e Frodo non sapeva cosa stava succedendo davanti al Nero Cancello. Ognuno stava facendo esattamente il suo dovere, ed è stato questo a permettere che la Provvidenza potesse disporre le cose in maniera tanto imprevedibile quanto favorevole.

Tolkien scrittore cattolico?

E’ fuor di dubbio che Tolkien fosse cattolico (37).
Esiste invece un acceso dibattito che ha come oggetto la cattolicità de Il Signore degli Anelli: è un libro religioso e cristiano, anzi, cattolico?
Alcuni lettori hanno individuato nel romanzo alcuni elementi che possono ricordare quelli della dottrina cattolica, ad esempio la salita di Frodo al Monte Fato, da alcuni accostata alla salita di Cristo sul Calvario per il Sacrificio; oppure il lembas, visto come viaticum che “nutre la volontà […] e che è più efficace quando si è digiuni” (38).
Altri, conoscendo la cura che Tolkien usava per le distanze e i tempi (39), ha notato che alcune date de Il Signore degli Anelli potrebbero avere un significato particolare. Ad esempio, la partenza della compagnia da Granburrone – e, quindi, l’inizio del viaggio per portare la speranza nella Terra di Mezzo – avviene il 25 dicembre. La distruzione dell’anello avviene il 25 marzo, data dell’Incarnazione – e della nuova Era - ma anche quella del primo Venerdì Santo.
Tuttavia nel romanzo colpisce l’assenza di qualsiasi elemento esplicitamente religioso; l’unica eccezione sembra essere il momento di raccoglimento che Faramir compie con i compagni prima del pasto (comunque non di preghiera si tratta) (40).
Questa assenza sembra essere la carta vincente dei sostenitori della tesi secondo la quale Il Signore degli Anelli non sarebbe un romanzo cattolico.
Le cose non sono così semplici.
Nel 1953 il gesuita padre Robert Murray, che aveva letto le bozze e il dattiloscritto de Il Signore degli Anelli, scrisse a Tolkien dicendogli che la lettura gli aveva lasciato una forte sensazione di “una positiva compatibilità con la dottrina della Grazia”.
Tolkien rispose con queste parole:

“Il Signore degli Anelli è fondamentalmente un’opera religiosa e cattolica; all’inizio non ne ero consapevole, lo sono diventato durante la correzione. Questo spiega perchè non ho inserito, anzi ho tagliato, praticamente qualsiasi allusione a cose tipo la «religione», oppure culti o pratiche, nel mio mondo immaginario. Perché l’elemento religioso è radicato nella storia e nel simbolismo. Tuttavia detto così suona molto grossolano e più presuntuoso di quanto non sia in realtà. Perché a dir la verità, io consciamente ho programmato molto poco; e dovrei essere sommamente grato per essere stato allevato (da quando avevo otto anni) in una fede che mi ha nutrito e mi ha insegnato tutto quel poco che so; e questo lo debbo a mia madre, che ha tenuto duro dopo essersi convertita ed è morta giovane, a causa delle ristrettezze e della povertà che dalla conversione le erano derivate” (41).

“Il Signore degli Anelli è fondamentalmente un’opera religiosa e cattolica”: ecco cosa taglia veramente la testa al toro. Tolkien si premura anche di spiegare l’assenza di “qualsiasi allusione a cose tipo la «religione», oppure culti o pratiche” nel suo romanzo. Perché, come abbiamo visto, è un romanzo che si regge sul combattimento interiore; sul Sacrificio che permette la Redenzione; sul progetto che un Creatore ha su ognuno di noi e al quale abbiamo il compito di conformarci, attraverso il quale passa la nostra autorealizzazione e la possibilità della Provvidenza di agire nel mondo; sulla libertà che ognuno di noi ha di scegliere tra bene e male, e di mentirsi circa la possibilità di trovare un compromesso tra essi.

Il segreto del suo successo: la risposta ad una invocazione

Ora possiamo finalmente tentare di dare un perché al successo eccezionale di questo libro.
Tolkien non ha inventato un mondo: l’ha scoperto.
Il Signore degli Anelli non è ambientato in un’u-topia, in un’isola che non c’è: la Terra di Mezzo è l’Europa; esso non è nemmeno ambientato in una u-cronìa: la Quarta Era, l’era degli uomini, è il nostro tempo. Tolkien non ha inventato una fiaba, ma ha co-creato – poiché la Creazione è una sola - un mito, ossia una forma diversa per raccontare la realtà, questa realtà e questo mondo; per guardare “la realtà in trasparenza”.
Questo romanzo ha la possibilità di parlare a tutti, perché riguarda ognuno di noi. Rispondendo ad un lettore circa il tema del libro, Tolkien scrisse:

“Ma se mi venisse chiesto, direi che il racconto non tratta in realtà del potere e del dominio: due cose che si limitano ad avviare gli avvenimenti: tratta della morte e del desiderio di immortalità. Che è come dire che il racconto è stato scritto da un uomo!”

Che è come dire, insomma, che il tema principale del racconto è quello che più interessa l’uomo: la morte, il senso dell’esistenza, il suo compito nella vita.

Manca ora un ultimo passaggio: cosa ha decretato il successo di questo libro? Perché ha affascinato ed affascina milioni di persone?
Ecco come risponde uno dei figli di Tolkien, Michael, a questo interrogativo:

“Almeno per me non c’è nulla di misterioso nel successo toccato a mio padre, il cui genio non ha fatto che rispondere all’invocazione di persone di ogni età e carattere stanche e nauseate dalla bruttezza, dall’instabilità, dai valori e dalle filosofie spicciole che sono spacciati loro come tristi sostituti della bellezza, del senso del mistero, dell’esaltazione, dell’avventura, dell’eroismo e della gioia. Cose senza le quali l’anima dell’uomo inaridisce e muore dentro di lui”.

Come dice un verso di una delle numerose canzoni de Il Signore degli Anelli, Le radici profonde non gelano (45). Questa invocazione è profondamente legata alla natura dell’uomo, nonostante sia sepolta sotto strati di ideologie ed egoismi.

Tolkien ha risposto a questa invocazione, e i suoi lettori glie ne sono grati.

A cura di R. Marchesini

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